Pietro Beltrami (Università di Pisa), "Invito al Roman de la Rose"
Ora che ci sono due traduzioni italiane, è tempo di raccomandare il Roman de la Rose a un pubblico più largo dei soli studiosi, non tanto perché è l’opera letteraria più importante del Duecento francese, ma perché è un testo affascinante, che ripaga largamente l’impegno richiesto per affrontarlo nella sua complessità. In realtà il romanzo (un poema, quanto alla forma) è duplice. Con la prima parte si entra in un’avventura d’amore squisitamente astratta, con personaggi che sono personificazioni (Bellaccoglienza e Rifiuto, Malabocca, Cortesia, Vergogna, Paura...), tipi (l’Amico), figure mitologiche (il dio d’Amore, Venere). La storia s’interrompe, probabilmente per la morte dell’autore (il non meglio noto Guillaume de Lorris), quando l’Amante, innamorato della rosa, è di fronte al fallimento. Un secondo autore, Jean de Meun (lui, invece, un personaggio noto) la riprende in mano, la prosegue con gli stessi personaggi e con altri (fra cui il torbido Falso Sembiante) e la porta a conclusione, con la conquista della rosa; ma ne fa un poema filosofico, in cui celebra Natura generatrice e mette in scena tutto ciò che pensa dell’umanità e del mondo che lo circonda, parlando di morale, di scienza e di politica, con una scrittura esuberante, piena di digressioni una nell’altra, nella quale sa però sempre ritrovare il filo del discorso. Il Roman de la Rose, nelle due parti e nella sua unità, si è così offerto alle più diverse interpretazioni, antiche e moderne, ma rimane aperto anche più semplicemente al piacere della lettura.